Vittoria anche in appello per il contribuente. La questione trattata dai Giudici romani (sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di II grado di Roma n. 5858/2022, in un giudizio patrocinato dallo scrivente avvocato tributarista Giuseppe Marino, qui scaricabile) riguarda un accertamento induttivo svolto a carico di un ristorante con il famigerato metodo del “bottigliometro”.
Ed invero, nel 2016 veniva compilato e consegnato ad una società esercente un’attività di ristorazione a conduzione familiare in un piccolo locale di soli mq 45 riservati ai coperti nel centro storico di Roma, un pvc avente ad oggetto una verifica fiscale generale eseguita da parte dell’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate, concernente in particolar modo le II.DD., l’IRAP e l’IVA relativamente all’esercizio 2013.
Orbene, se, da un lato, l’Ufficio riscontrava la regolarità degli adempimenti contabili, dall’altro, l’esito della verifica fiscale portava a una ricostruzione in via meramente induttiva di un maggior ricavo lordo di € 87.270,00, il tutto basandosi solo ed esclusivamente sulla presunta vendita di 1.170 litri di acqua per i quali la società non avrebbe emesso fattura o ricevuta fiscale.
In particolare, l’Ufficio, prendendo in esame “la media mensile di bottiglie di acqua minerale venduta in tre mesi di massimo fatturato” (marzo, giugno e settembre 2013) e il fatturato di tali tre mesi, calcolava ricavi lordi dichiarati per litro di acqua pari a € 74,59.
Tale valore, ancorché riferibile ai soli cennati tre mesi di massimo fatturato, veniva esteso presuntivamente a tutti i restanti mesi dell’anno.
Moltiplicando, quindi, tale presunto valore di € 74,59 per il numero di bottiglie di acqua asseritamente vendute senza emissione di fatture o ricevute (1.170), l’Ufficio determinava i presunti maggiori ricavi lordi per il 2013 in € (1.170 x 74,59) = € 87.270,00 (a fronte di un fatturato di € 270.301,14 oltre IVA).
I Verificatori avevano inoltre ritenuto non deducibili costi per € 2.688,00 (e indetraibile l’IVA di € 384,00), afferenti alle bottiglie di acqua consumate dai dipendenti, dai soci e per la preparazione dei pasti nel corso dell’anno 2013 (ritenendo ciò una forma di autoconsumo, paragonabile ad una cessione di beni, e quindi imponibile).
L’Agenzia delle Entrate, con il successivo avviso di accertamento notificato il 2.10.2017, ricalcando pedissequamente il pvc, considerando anche l’autoconsumo non deducibile di bottiglie di acqua per € 2.688,00 e scomputando l’IVA del 10%, accertava ai fini IRES un totale di maggiori ricavi imponibili di € 82.024,00, da cui una maggiore pretesa imposta di € 13.891,50; ai fini IRAP, accertava un maggior valore della produzione di € 79.336,00, da cui una maggiore pretesa imposta di € 3.557,00; ai fini IVA, accertava un maggior volume di affari di € 79.336,00, da cui una pretesa maggiore imposta (con aliquota del 10%) di € 7.934,00 (oltre all’imposta di € 384,00 indebitamente detratta per l’autoconsumo).
L’Ufficio, infine, irrogava sanzioni per € 20.837,25, oltre alla richiesta degli interessi.
Proponeva tempestivo ricorso alla CTP di Roma la società, eccependo l’illegittimità della ricostruzione presuntiva dei maggiori ricavi, in ragione:
- dell’erroneità del computo presuntivo dei litri di acqua non fatturati (1.170);
- della non rappresentatività su base annua del valore di € 74,59 di ricavi lordi per litro d’acqua venduto, in quanto il valore era stato desunto solo dai “tre mesi di massimo fatturato” (marzo, giugno e settembre 2013);
- dell’illegittimità dell’accertamento presuntivo di maggiori ricavi basato esclusivamente sul solo elemento della asserita vendita di acqua senza documento fiscale, trattandosi di una presunzione semplice isolata, priva dei requisiti di gravità, precisione e concordata, che avrebbe necessitato quanto meno di ulteriori elementi a supporti (in tal senso, si citava la recente sentenza di Cassazione n. 12694/2018).
Veniva infine contestata anche l’illegittimità del disconoscimento del costo di € 2.688,00 (e della detrazione della relativa IVA di € 384,00) per autoconsumo di bottiglie d’acqua, dato che questa – per stessa ammissione dell’Ufficio – veniva impiegata anche per la preparazione dei cibi, risultando così un costo deducibile (e l’IVA relativa detraibile).
La CTP di Roma, con sent. n. 1421/19 del 13.12.2018, dep. il 31.1.2019, accoglieva il ricorso.
A seguito di ciò proponeva appello l’Ufficio. La società provvedeva quindi a costituirsi in giudizio.
Ciò premesso, con la sentenza n. 5858/2022, la CGT di II del Lazio, in un giudizio patrocinato dallo scrivente avvocato tributaria Giuseppe Marino, ha respinto l’appello dell’Ufficio e riconosciuto la validità e fondatezza della difesa della società.
In particolare, secondo i Giudici romani, “la … giurisprudenza nomofilattica, tuttavia, è altresì ferma nel richiedere che, ai fini dell’utilizzo degli indizi (tali inconfutabilmente essendo quelli posti a base della presente pretesa impositiva), mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertarti dalla amministrazione (Cass., sent. n. 1575/2007), quando manchi (come il Collegio ritiene in questa fattispecie) tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.
Nel caso di specie l’unico elemento assunto dalla Amministrazione a fondamento dell’accertamento induttivo è costituito dal numero delle bottiglie di acqua (quantificate in 1.170 senza emissione di fattura o ricevuta fiscale) asserita mente vendute senza ricevuta o fattura, e altresì dal conseguente valore dei presunti maggiori ricavi, ottenuto applicando induttivamente a tutti i mesi dell’anno la ricostruzione, a sua volta induttiva, del presunto maggior fatturato dei tre mesi di “massimo fatturato”, ossia marzo, giugno e settembre 2013.
Tuttavia, nell’atto di appello non viene contrastata la valida argomentazione riportata nella sentenza di prime cure relativa all’indimostrato (e conseguentemente erroneo) calcolo dei litri d’acqua asseritamente non fatturati; né la ulteriore e tautologica argomentazione sopra esposta riesce a supportare a sua volta, in termini probatori o solo indiziari, il motivo per il quale il valore medio del presunto maggior fatturato dei mesi di “massimo fatturato” di marzo, giugno e settembre 2013, possa applicarsi ragionevolmente anche agli altri mesi dell’anno, a prescindere dai periodi di “alta” o “bassa” stagione, pur sempre presenti anche in località turisticamente attraenti quale è indubbiamente il centro storico di Roma.
Ci si trova di fronte, in sintesi, ad una doppia presunzione, non avente i caratteri di precisione, gravità e concordanza che la normativa e la giurisprudenza in materia richiedono; manca, in buona sostanza, la prova presuntiva richiesta dall’art. 2729 c.c. e dall’art. 39, co. 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del1973.
La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017).
Nel caso di specie, giudica il Collegio che la caducità di un elemento indiziario si riverberi invece, negativamente, sull’elemento indizia rio successivo, ulteriormente indebolendo/o.
Nel merito, infatti, quanto all’asserito numero di bottiglie d’acqua, il dato di partenza per il calcolo dei presunti maggiori ricavi utilizzato dall’Ufficio è stato dato dal numero di litri di acqua ufficialmente acquistati dalla società nel 2013, pari a 9.188. Da tale numero l’Ufficio ha sottratto le bottiglie destinate all’autoconsumo dei dipendenti e dei soci lavoratori del piccolo ristorante (pari a 12 bottiglie giornaliere per 336 giorni, e quindi pari a 4.032 litri- cfr. pag. 4 dell’accertamento), ottenendo così (9.188- 4.032) = 5.156 litri di acqua destinati alla vendita. l’Ufficio ha peraltro riscontrato, da un esame delle fatture e delle ricevute fiscali emesse dalla società, la vendita solamente di 3.986 litri di acqua e l’assenza di rimanenze, per cui ha desunto che la differenza, pari a (5.156- 3.986) = 1.170 litri, sarebbe stata venduta senza regolare emissione di fattura o ricevuta fiscale.
Ma, come rilevato dalla società contribuente (e sul punto, nulla ha controdedotto l’Ufficio) tale primo computo dell’Ufficio appare superficiale, in quanto il ristorante di 45 mq- situato nel centro storico di Roma, in Via …., avendo principalmente come clienti turisti stranieri spesso organizzati in gruppi – offriva, oltre al consueto menù a la carte, un menù fisso con prezzo determinato a forfait a € 10,00 per un primo a scelta, un contorno e acqua inclusa.
Ebbene, nelle ricevute fiscali emesse per l’acquisto del suddetto menù fisso (allegate dalla società a campione al ricorso- cfr. doc. n. 4) veniva indicata solo la dicitura “Menù a prezzo fisso” e il costo di € 10,00, e non venivano invece mai indicate nello specifico le singole portate e l’acqua inclusa nel menù (ma non in modo specifico), per cui l’Ufficio non ha conteggiato i litri di acqua inclusi nel menù fisso tra quelli regolarmente fatturati; né sono state considerate, da un lato, le diverse possibilità di consumo delle bottiglie di acqua, e, dall’altro, le somministrazioni che presupponevano l’utilizzo dell’acqua, come ad esempio le vendite di caffè, cocktail e altre bevande, ivi comprese le vendite di semplici bicchieri di acqua serviti singolarmente o insieme ai caffè.
In sostanza, non appare persuasiva la determinazione del valore di € 74,59 di ricavi lordi per litro d’acqua venduto, in quanto il valore risulta desunto solo dai “tre mesi di massimo fatturato” (marzo, giugno e settembre 2013) ed esteso- con procedimento immotivato- a tutti gli altri mesi dell’anno.
In sintesi, si condivide l’assunto della società, secondo cui l’Ufficio-anche alla luce della giurisprudenza sopra richiamata –avrebbe comunque dovuto utilizzare un campione di merci vendute certamente più significativo oltre che ulteriori elementi (ancorché presuntivi) atti a corroborare la pretesa erariale”.
La sentenza di appello merita un plauso per la chiarezza di esposizione e la logicità dei ragionamenti che hanno portato al rigetto dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, decretando la vittoria del piccolo ristorante romano. In particolare, l’accertamento presuntivo fondato sul c.d. “bottigliometro” necessita sempre di ulteriori elementi a riscontro al fine di poter corroborare la pretesa erariale di maggiori ricavi non contabilizzati.
Avv. Giuseppe Marino – avvocato tributarista, patrocinante in Cassazione
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