Come noto, dall’accertamento di proventi non dichiarati a carico di società, discendono particolari riflessi in capo ai soci laddove si tratti di “società a ristretta base sociale o familiare”

Segnatamente, si fa riferimento alle presunzione giurisprudenziale utilizzata ormai da molti anni dall’Agenzia delle Entrate e convalidata dall’orientamento costante della Cassazione, per cui se l’Ufficio accerta un maggior reddito d’impresa non dichiarato a carico della società e recuperato a tassazione in capo alla stessa, tale accertamento (societario) legittima l’estensione in capo singoli soci di ulteriori accertamenti (personali) poiché si presume – salvo prova contraria – che i proventi extracontabili della società siano stati successivamente distribuiti “in nero” ai singoli soci, in ragione delle rispettive percentuali di partecipazione agli utili societari.

Tale presunzione si fonda notoriamente sulla ristrettezza della base sociale e sul vincolo di solidarietà e di reciproco controllo fra i soci (fatto noto). Da tale circostanza si desume (fatto ignoto) che proprio nelle società con un ristretto numero di soci, tutti gli utili asseritamente incassati “in nero” e, conseguentemente, non iscritti in bilancio né dichiarati dalla società, vengano distribuiti – sempre “in nero” – ai singoli soci, in misura proporzionale alle rispettive quote di partecipazione, a meno che il socio destinatario dell’autonomo accertamento (collegato a quello principale della società) non sia in grado di fornire in giudizio una valida “prova contraria”, in grado di superare la suddetta presunzione di distribuzione occulta degli utili societari.

Ebbene, detta presunzione è – purtroppo – estremamente efficace, sia in quanto consente di estendere l’accertamento societario alle posizioni dei singoli soci, sia in quanto ingenera una inversione dell’onere probatorio in capo ai soci, i quali saranno chiamati a fornire la “prova contraria” alla presunzione di distribuzione.

Ancora oggi la Cassazione afferma che costituisce orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello per cui è possibile attribuire ai soci di una società a “ristretta base sociale o familiare” i maggiori redditi accertati nel corso della verifica fiscale nei confronti dell’impresa.

Secondo la Cassazione, infatti, a fronte di utili extra-bilancio non dichiarati dall’impresa, si realizza una presunzione legale relativa di distribuzione degli stessi utili in favore dei soci (cfr. ex multis, Cass. ord. 29 gennaio 2020, n. 1970; Cass. ord. 14 febbraio 2020, n. 3735; Cass. ord. 3 febbraio 2020, n. 2407), essendo peraltro irrilevante che si tratti di persone fisiche o giuridiche, dal momento che in attuazione del divieto di abuso del diritto la presunzione dell’imputazione/distribuzione degli utili extra bilancio opera anche nei confronti degli enti, anch’essi a ristretta base sociale, che siano a loro volta soci della società verificata (cd. soci di secondo grado) (cfr. Cass. ord. 23 ottobre 2019, n. 27049).

Delineata l’operatività della presunzione, occorre ora chiarire in che modo il contribuente può fornire la “prova contraria” per contestare efficacemente l’accertamento fiscale emesso nei suoi confronti, in aggiunta a quello relativo ai redditi non dichiarati dalla società.

 

Poiché il tema è quello della imputazione ai soci degli utili societari extra bilancio, per lungo tempo si è sostenuto che la prova che il contribuente avrebbe dovuto fornire riguardava necessariamente la dimostrazione dell’inesistenza dei maggiori ricavi accertati dall’Agenzia delle Entrate in capo alla società.

In altri termini, il socio avrebbe dovuto riproporre nel proprio ricorso le stesse difese opposte nel giudizio relativo all’autonomo avviso di accertamento notificato in proprio alla società.

In alternativa, il socio avrebbe dovuto fornire la prova che tali ricavi “in nero” della società non avevano formato oggetto di successiva distribuzione, bensì erano stati reimpiegati all’interno dell’attività d’impresa o accantonati o, ancora, destinati a un’utilizzazione diversa dalla presunta distribuzione occulta in favore dei soci della società.

Chiaramente, nella prassi, è molto difficile fornire un adeguato supporto probatorio a sostegno di simili argomentazioni.

Proprio per tale motivo, una strategia difensiva ulteriore è stata individuata nella possibilità di vagliare la tipologia di contestazione mossa nei confronti della società e, quindi, verificare se questa, per natura, si presta a formare oggetto della presunzione in discorso.

Ad esempio, si potrebbe sostenere che l’accertamento in capo alla società di costi indeducibili o non inerenti difficilmente potrà condurre all’automatico accertamento in capo al socio circa la percezione di utili extra bilancio, giacché tali rilievi relativi alla società di per sé non implicano l’esistenza materiale di un utile sottratto a tassazione e suscettibile di successiva distribuzione occulta in favore dei soci.

Ma ancor di più efficace si rivela la strategia difensiva basata sull’attività e il ruolo effettivamente assunto dal socio nell’ambito della gestione degli affari societari.

Più precisamente, è stato dimostrato che per ottenere l’annullamento dell’avviso di accertamento notificato al  singolo socio, è possibile argomentare con successo la totale “estraneità” di quest’ultimo rispetto alla gestione societaria.

Ciò è possibile attraverso l’allegazione di una serie di fatti relativi allo svolgimento dell’attività d’impresa, che risultino sostanzialmente “incompatibili” con l’applicazione della presunzione di distribuzione appena esaminata alla singola fattispecie concreta.

Ad esempio, si potrebbe sostenere con successo che è verosimilmente “estraneo” rispetto alla conduzione degli affari societari il socio che possiede una partecipazione di scarso rilievo, ovvero il socio che dimostri l’esistenza di dissidi con gli altri soci  “maggioritari” o “dominanti” o “di riferimento” della società.

Ed ancora, che è estraneo alla società il socio che negli anni si sia opposto a determinate scelte di gestione o, più in generale, il socio che non abbia mai avuto alcun ruolo nell’amministrazione e nel controllo della società.

Simili situazioni, che spesso si verificano all’interno della compagine sociale nelle diverse fasi di vita delle imprese, fanno presumere che il socio rimasto “estraneo” alla conduzione degli affari sociali (ossia il socio dissidente o minoritario, o che semplicemente non sia a conoscenza dei fatti relativi alla gestione della società), sia ugualmente avulso ed estraneo rispetto alla produzione degli eventuali utili extra bilancio e, quindi, anche rispetto alla loro eventuale spartizione che, in tal caso, si presume avvenga unicamente fra i soci che hanno avuto un ruolo attivo nella produzione dell’utile stesso, attraverso l’effettiva gestione e il controllo dell’ente societario.

Tale spunto difensivo, che ad oggi è il più efficace per opporsi agli accertamenti fondati sulla ristretta base sociale (o familiare) di società accusate di aver percepito degli utili “in nero”, nasce da un’importante pronuncia della Corte di Cassazione, la n. 1932 del 2 febbraio 2016.

In specie, l’Amministrazione Finanziaria lamentava avanti alla Suprema Corte di Cassazione che Secondo la Commissione Tributaria Regionale il contribuente avrebbe dimostrato la propria estraneità alla gestione societaria, in tal modo vincendo la presunzione di distribuzione tra i soci degli utili non dichiarati delle società a ristretta base partecipativa.”.

Avverso detta motivazione della sentenza della CTR proponeva ricorso per cassazione l’Ufficio delle Entrate per violazione del d.P.R. n. 600/1973, art. 39, e dell’art. 2697 c.c., in cui sarebbero incorsi i giudici di secondo grado, “disattendendo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità alla cui stregua, nelle società di capitali a ristretta base partecipativa, si presume, fino a prova contraria, che gli utili extracontabili vengano distribuiti tra i soci.”.

Nello specifico, l’Agenzia delle Entrate reclamava che “la prova contraria che il contribuente avrebbe dovuto offrire non si risolveva, come erroneamente ritenuto dal giudice di merito, nella dimostrazione della sua estraneità alla gestione societaria, ma aveva ad oggetto la destinazione (diversa dalla distribuzione tra i soci) degli utili extra bilancio accertati in capo alla società.”.

Tale assunto veniva peraltro categoricamente rigettato dalla Cassazione la quale, al contrario, riteneva che la ripartizione pro quota degli utili extracontabili fra i soci applicata dall’Ufficio, nel caso concreto, non cogliesse nel segno.

La pronuncia di secondo grado veniva così confermata, sulla base del seguente ragionamento di diritto circa la legittimità della presunzione:

“La regula juris di cui la difesa erariale, con il mezzo di cui all’articolo 360 codice civile, n. 3, lamenta la violazione si risolve nell’affermazione che, nel caso di società di capitali a ristretta base sociale, è legittima, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, la presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati (sentt., nn. 6197/07, 18640/08, 9519/09, 29605/11).

Detto principio, ancorché spesso enunciato nell’ambito di controversie in cui i (pochi) soci della società di capitale erano (anche) legati tra loro da rapporti di parentela o di coniugio, non postula necessariamente l’esistenza di tali rapporti, in quanto deriva dalla regola di comune esperienza secondo cui dalla ristrettezza della base sociale discende – secondo l’id quod plerumque accidit e salva la possibilità del contribuente di offrire la prova contraria – un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra i soci medesimi; il che legittima, anche quando i soci non siano legati da rapporti familiari, la presunzione che gli stessi siano edotti degli affari sociali e quindi siano consapevoli dell’esistenza di utili extra bilancio e se li distribuiscano in proporzione delle rispettive quote di partecipazione al capitale (in termini, ordinanze nn. 19680/12 e 24572/14).

Nella specie la sentenza gravata si è attenuta a tali principi, in quanto, con giudizio di fatto non censurato in ricorso, ha accertato l’estraneità del contribuente alla gestione e conduzione societaria (pag. 7, in fine) e da tale accertamento ha desunto, con un ragionamento induttivo non censurabile con il mezzo di cui all’articolo 360 codice civile, n. 3, che nel caso in esame non potesse farsi applicazione della massima di comune esperienza, su cui poggia la presunzione di distribuzione degli utili extra bilancio, che dalla ristrettezza della base sociale inferisce un elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della società e di reciproco controllo tra i soci medesimi.

Insomma, la Cassazione ha chiarito che la prova che il socio non fosse edotto delle vicende relative alla gestione della società fa venir meno il “presupposto” fondamentale da cui muove la presunzione: vale a dire l’esistenza di un “elevato grado di compartecipazione dei soci alla gestione della societàe di reciproco controllo tra i soci medesimi“.

Tale presupposto (o fatto noto) giustifica l’esistenza stessa della presunzione e la rende concretamente applicabile solo alle presunte distribuzioni di utili fra i soci che possiedono la cd. affectio societatis.

Detto più semplicemente, la presunzione di distribuzione in discorso si attaglia – secondo il principio affermato dalla Cassazione – solo a quelle fattispecie in cui sussiste un’effettiva volontà dei soci di partecipare all’attività e agli utili prodotti dall’impresa (cd. affectio societatis).

Pertanto, così come si presume (in base all’id quod plerumque accidit) che in ragione del coinvolgimento e del reciproco controllo dei soci sull’attività d’impresa, questi siano a conoscenza degli utili non dichiarati dalla società poiché destinati alla spartizione interna fra i soci, allora ugualmente deve presumersi che il socio che, all’opposto, non abbia la minima cognizione o informazione circa lo svolgimento dell’attività sociale – essendone rimasto estraneo nonostante la qualifica di socio –, non sia neppure a conoscenza degli eventuali ricavi “in nero” prodotti dalla società.

 Tali ricavi, di conseguenza, si presumeranno imputabili agli altri soci, con esclusione del socio dissidente o disinteressato alla conduzione della società.

Su tali basi è possibile impugnare vittoriosamente l’avviso di accertamento emesso nei confronti del socio di società a “ristretta base sociale o familiare”, entro il termine perentorio di 60 giorni dalla notifica dell’atto.

 

Avv. Giuseppe Marino  (avvocato tributarista cassazionista in Roma)

 

 

 

Studio di consulenza fiscale e tributaria Marino

Proponi un quesito o richiedi un appuntamento per una consulenza legale tributaria su questo argomento allo

Studio Legale Tributario Marino

Via Ruffini 2/a – 00195 – Roma – Tel. 06/3217567 – 06/3217581

www.studiomarino.net

email: g.marino@studiomarino.net