Secondo il nuovo orientamento dell’Agenzia delle Entrate, per la determinazione la residenza fiscale delle persone fisiche occorre verificare se nei rapporti con l’altro Stato operi una Convenzione contro le doppie imposizioni.

La risposta recentemente fornita dall’Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 203/2019, rimette in discussione tutto quel filone, anche giurisprudenziale, che intravedeva nella mancata iscrizione all’AIRE il criterio fondamentale per la determinazione della residenza fiscale in Italia.

Occorre premettere che la problematica di cui si discute riguarda le ipotesi di trasferimento ed emigrazione all’estero di soggetti precedentemente residenti in Italia.

In grandi linee, quando un soggetto trasferitosi a vivere all’estero non provvedeva tempestivamente alla propria cancellazione dell’anagrafe della popolazione residente e alla conseguente iscrizione all’AIRE, l’Agenzia delle Entrate riteneva che lo stesso dovesse continuare ad essere considerato come effettivamente residente (fiscalmente) in Italia.

Tale approccio dell’Amministrazione era supportato da una certa giurisprudenza della Cassazione tributaria la quale, per anni, ha sostenuto che la mancata iscrizione all’AIRE dovesse essere equiparata a una presunzione legale assoluta di permanenza della residenza fiscale in Italia (senza quindi possibilità di prova contraria), con tutte le conseguenze che da ciò ne derivavano.

Infatti, ai sensi dell’art. 3 del TUIR, mentre i residenti all’estero sono assoggettati all’imposizione in Italia soltanto sui redditi prodotti nel nostro Paese, i soggetti fiscalmente residenti pagano le imposte sui redditi ovunque prodotti (cd. worldwide taxation). 

Il che significa che in base il precedente orientamento dell’Agenzia, avallato dalla Cassazione, potevano comunque essere attratti a tassazione in Italia tutti i redditi, anche quelli di fonte estera, di un soggetto passivo che avesse interrotto ogni rapporto con il nostro Paese, tutte le volte in cui mancava una tempestiva iscrizione all’AIRE dell’interessato.

L’adempimento formale dell’iscrizione all’AIRE, per l’anno d’imposta di riferimento, si riteneva dovesse dunque prevalere, in maniera assoluta, sull’effettiva emigrazione all’estero della persona, alla luce del disposto dell’art. 2, comma 2, del TUIR.

Tale norma stabilisce che “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente hanno nel territorio dello Stato il domicilio la residenza ai sensi del Codice civile”.

Quindi, il primo criterio per l’individuazione della residenza fiscale in Italia è proprio l’iscrizione nell’anagrafe della popolazione residente per la maggior parte del periodo d’imposta, valutato alla stregua di presunzione legale assoluta.

Tanto premesso sui termini generali della questione, la recente risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 203/2019 offre un importante contributo in tema d’interpretazione delle norme sulla residenza, in particolare, laddove pone l’accento sul ruolo e sull’incidenza fondamentale assunta delle Convenzioni contro le doppie imposizioni siglate dall’Italia con gli Stati intra ed extra UE, nell’ambito del procedimento volto all’accertamento della residenza fiscale.

 Il primo e centrale chiarimento, come anticipato, riguarda l’interpretazione dell’art. 2, comma 2, del TUIR. 

 In proposito, afferma l’Agenzia che detta norma considera residenti in Italia “le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile”.

Le tre condizioni sopra citate sono tra loro alternative, essendo sufficiente che sia verificato, per la maggior parte del periodo d’imposta, uno solo dei predetti requisiti affinché una persona fisica venga considerata fiscalmente residente in Italia e, viceversa, solo quando i tre presupposti della residenza sono contestualmente assenti nel periodo d’imposta di riferimento tale persona può essere ritenuta non residente nel nostro Paese.

Così, nel qualificare i criteri di residenza fiscale come “alternativi” l’uno rispetto all’altro, l’Agenzia prende le distanze, innanzitutto, da quell’orientamento di prassi che in passato aveva analizzava il requisito (meramente formale) dell’iscrizione alle anagrafi tributarie come presunzione legale assoluta e, quindi, come criterio per lo stabilimento della residenza decisamente prevalente rispetto agli altri.

Però, per comprendere la portata assolutamente innovativa della risoluzione in commento, occorre leggere la suesposta interpretazione dell’art. 2 congiuntamente con la precisazione per cui “Per individuare la nozione di residenza fiscale valida ai fini dell’applicazione delle disposizioni delle Convenzioni contro le doppie imposizioni è necessario fare riferimento alla legislazione interna degli Stati contraenti”.

 Da ciò si comprende che in tema di residenza fiscale, la prima verifica da compiere è quella diretta a stabilire se la fattispecie vada esaminata (o meno) alla luce di una Convenzione internazionale contro la doppia imposizione.

Infatti, ogniqualvolta sia stato stipulato un Trattato internazionale tra l’Italia e lo Stato estero di emigrazione, le condizioni per l’attrazione della residenza fiscale in Italia troveranno ingresso, come chiarito dall’Agenzia, non già in virtù dell’applicazione “diretta” del diritto nazionale (art. 2 TUIR), bensì in virtù del rinvio operato dalla Convenzione alle norme nazionali sullo stabilimento della residenza e, comunque, secondo il meccanismo d’individuazione della residenza previsto dalla stessa Convenzione.

In termini più concreti, ciò sta a significare che alle fattispecie coperte da una Convenzione internazionale sarà applicabile la definizione di “residenza fiscale” stabilita dalla stessa Convenzione che, a tal fine, prevede: i) sia il rinvio alle norme nazionali sulla residenza; ii) sia l’applicazione di criteri convenzionali sulla determinazione della residenza, secondo la definizione della stessa Convenzione (cd. tie braker rules).

Viceversa, alle fattispecie non coperte da un Trattato internazionale sarà applicabile la definizione di “residenza fiscale” prevista dalla disciplina nazionale.

Ne deriva che l’ambito dell’art. 2 del TUIR d’ora in avanti dovrà intendersi circoscritto unicamente ai rapporti in cui manchi del tutto una disciplina convenzionale tra l’Italia e lo Stato estero di emigrazione e non solo.

La differenza tra i regimi fiscali applicabili alle diverse fattispecie sopra indicate non è di poco conto.

 Basti considerare che la sussistenza anche di una soltanto delle condizioni alternative dell’art. 2 cit. (iscrizione all’anagrafe, domicilio o residenza in Italia ai sensi del codice civile) è più che sufficiente a determinare l’imposizione in Italia del soggetto trasferitosi in altro Stato che non abbia siglato alcuna Convenzione con l’Italia; mentre laddove il soggetto sia emigrato in uno Stato con il quale è in vigore una Convenzione contro la doppia imposizione, allora la residenza ai fini fiscali andrà valutata in base alla “legislazione interna degli Stati contraenti”.

 Pertanto, alla luce di entrambe le legislazioni nazionali sullo stabilimento della residenza che occorrerà esaminare, ben potrebbe accadere che entrambi gli Stati contraenti, in base ai propri criteri, considerino il soggetto come fiscalmente residente nel territorio dello Stato (cd. “doppia residenza fiscale”).

 A questo punto, il problema della cd. “doppia residenza fiscale” della persona dovrà essere sciolto sulla base ai criteri espressamente previsti dalla stessa Convenzione (cd. tie brake rules).

 In particolare, l’articolo 2 del Modello di Convenzione OCSE stabilisce che qualora una persona fisica sia considerata residente in entrambi gli Stati, la sua situazione viene determinata nel modo seguente:

  1. a)   è considerata residente solamente nello Stato in cui ha un’abitazione permanente; quando dispone di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati, è residente nello Stato in cui sono più strette le sue relazioni personali ed economiche;
  2. b)   se quanto al punto a) non è determinante, è considerata residente nello Stato in cui soggiorna abitualmente;
  3. c)    se quanto al punto b) non è determinante, è considerata residente nello Stato in cui ha la nazionalità;
  4. d)   se quanto al punto c) non è determinante, la residenza è determinata dalle autorità competenti degli Stati contraenti

 Insomma, il nuovo orientamento dell’Agenzia delle Entrate è chiaramente finalizzato a mettere al centro della questione dell’accertamento della residenza l’applicazione delle Convenzioni internazionali.

 E poiché sono ormai numerosissimi gli Stati con i quali l’Italia ha stipulato delle Convenzioni contro le doppie imposizioni, è possibile affermare che d’ora in poi l’accertamento della residenza fiscale dei contribuenti non potrà più prescindere dall’applicazione delle tie brake rules previste dalle stesse Convenzioni.

 Peraltro, si osservi che per la determinazione della residenza fiscale secondo le regole internazionali, le suddette tie brake rules non prevedono affatto l’iscrizione alle anagrafi tributarie.  Pertanto, in base al nuovo approccio dall’Agenzia delle Entrate, non avrà più alcuna rilevanza la circostanza che il contribuente sia iscritto (o meno) all’anagrafe della popolazione residente. 

 Questa è la fondamentale differenza rispetto al passato, che emerge come conseguenza diretta dell’obbligo di mettere al primo posto per l’accertamento della residenza l’applicazione delle Convenzioni internazionali.

In conclusione, il principio fondamentale emerso è che la disciplina della Convenzione internazionale contro le doppie imposizione prevale sul requisito formale dell’iscrizione all’AIRE, la cui mancanza non rappresenta più una presunzione assoluta di residenza fiscale in Italia. 

  

Avv. Giuseppe Marino                                                                         

Avvocato tributarista  in Roma patrocinante in Cassazione

 

 

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