Con la recente sentenza n. 139/2016, pronunciata il 22.10.2015 e depositata il 15.1.2016, la Commissione Tributaria Regionale di Milano è tornata ad occuparsi dello strumento di accertamento per eccellenza: il redditometro.

Quest’ultimo, seppur indubbiamente rappresenta uno strumento utile per contrastare il fenomeno dell’evasione fiscale, in quanto permette al Fisco di effettuare un accertamento sintetico del reddito del contribuente basandosi sulle spese da quest’ultimo effettuate e analizzando i beni in suo possesso, non può esaurirsi in un mero calcolo matematico. Invero, i Giudici milanesi pur riconoscendo la piena legittimità dell’accertamento sintetico, sottolineano la necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina dello stesso. Ciò significa che la determinazione del reddito tramite il ricorso alle presunzioni, cioè a quegli elementi che manifestano induttivamente la capacità contributiva del privato, deve essere accompagnata dallo sforzo dell’Amministrazione finanziaria finalizzato alla ricostruzione della reale capacità dello stesso a partecipare alla spesa pubblica, anche a prescindere da un suo intervento.

I Giudici milanesi hanno quindi escluso l’automatismo del redditometro che, pur essendo uno strumento idoneo ad individuare manifestazioni di ricchezza, deve tenere conto della realtà socio – economica del contribuente, nello specifico della sua “forza economica reale”, pur tenendo presente gli strumenti presuntivi attualmente vigenti nell’ordinamento. Ciò nel rispetto di quel principio di rango costituzionale sancito nell’art. 53 della Norma fondamentale in virtù del quale “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche secondo la loro capacità contributiva”.

Proprio nella suddetta norma è possibile rinvenire il fondamento dell’impossibilità per l’Amministrazione finanziaria di determinare automaticamente il reddito, prescindendo da quella che è la reale capacità contributiva del soggetto sottoposto all’accertamento.

La pronuncia dei Giudici milanesi richiama, inoltre, l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione in materia, secondo cui, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi è compito dell’amministrazione dar prova dell’esistenza dei fatti costitutivi della “maggiore” pretesa tributaria azionata” (Corte di Cassazione, 7 maggio 2007, sent. n. 10345).

Invero, la suddetta decisione trova un importante antefatto nella sentenza della Corte di Cassazione n. 19163/2003 con la quale gli stessi Ermellini, pur affermando l’importanza delle presunzioni previste per il redditometro, ne sottolineano la natura “ausiliaria” che non può avere effetti automatici nella determinazione del presunto maggior reddito e soprattutto non può prescindere da un confronto con la situazione concreta del contribuente.

Sottolineano ancora i Giudici milanesi che lo strumento primario di cui l’Amministrazione finanziaria dispone per accertare l’effettivo scostamento tra i dati presunti e quelli dichiarati è il “contraddittorio con il contribuente”.

Tale strumento è stato reso esplicitamente obbligatorio con il D.L. n. 78/2010, sebbene tale sua caratteristica sussistesse, in modo implicito, anche nella precedente disciplina che lo elevava a strumento essenziale e imprescindibile del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa.

Invero, il contraddittorio renderebbe possibile l’adeguamento delle deduzioni operate di volta in volta dall’Amministrazione finanziaria, con le dichiarazioni e le produzioni rese dal contribuente.

Quest’ultime permetterebbero al privato di dimostrare che i beni acquistati e le spese sostenute non sono da imputare ad un aumento della sua capacità contributiva e provengono, invece, da fonti diverse dal reddito (si pensi, ad esempio, ad un immobile ereditato per successione o ad una vincita alla lotteria).

La necessità dell’instaurazione del contraddittorio tra il Fisco e il contribuente venne posta in luce anche dalla III sezione della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze con la sentenza n. 569/2014.

In tale circostanza sottolinearono con fermezza i Giudici che, solo in esito al contraddittorio con il privato sarebbe stato possibile attribuire alle presunzioni semplici quei caratteri di gravità, precisione e concordanza che avrebbero legittimato la verifica fiscale.

Di conseguenza, essa non può e non deve esaurirsi in un mero rilievo dello scostamento con i dati dichiarati, ma deve essere supportata dalle motivazioni per le quali l’Amministrazione finanziaria ritiene di ignorare le contestazioni sollevate dal contribuente.

D’altronde, il rispetto di due fondamentali principi sanciti nel nostro ordinamento, quello di ragionevolezza e a maggior ragione il principio di capacità contributiva, rafforza l’attualità di un orientamento giurisprudenziale precedentemente affermatosi che considerava le presunzioni richiamate dalla disciplina dell’accertamento sintetico come “semplici” e non legali relative.

Tale considerazione porta all’affermazione di due ordini di conseguenze e cioè che mentre l’onere della prova resta a carico dell’Ufficioche deve integrare il risultato del redditometro con ulteriori riscontri (con un maggiore coinvolgimento dello stesso nella ricostruzione della realtà dei fatti), il contribuente può rafforzare la propria posizione – e di conseguenza ribattere all’accertamento fiscale – con altrettante presunzioni semplici che il giudice valuterà sulla base del suo libero convincimento.

In conclusione, seppur il redditometro rappresenta un potente strumento nelle mani del Fisco per controllare le spese del contribuente al fine di rideterminarne il presunto reddito imponibile, ciò che si deve evitare è che lo stesso si traduca nell’applicazione asettica di coefficienti moltiplicativi fissati dal legislatore, perdendo di vista la reale e concreta capacità contributiva del soggetto destinatario dell’accertamento fiscale.

Avv. Giuseppe Marino                                            

Avvocato tributarista in Roma, patrocinante in Cassazione                                   

 

 

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